Federico II Chiaramonte, figlio di Marchisia Prefolio e fratello di Manfredi e Giovanni il Vecchio, è ritenuto il più antico feudatario di Favara. Quando e in quale occasione ne sia stato investito non è dato saperlo. Gli storici non hanno tuttora riscontrato testimonianze grafiche che attestino il legale possesso del territorio di Favara ai Chiaramonte. I pochi dati di cui si dispone ci rimandano al 1282, anno della rivoluzione del Vespro.
Nei giorni in cui è iniziata la ribellione i Chiaramonte si trovavano ad Agrigento e Manfredi, il maggiore dei fratelli, approfittando del disordine sociale del momento, occupò il territorio di Mesecti o Floresta regia (oggi Misita) appartenente alla Mensa Vescovile di Agrigento. Il Chiaramonte giustificò il suo atto di usurpazione con presunti diritti di investitura ricevuti dal re di Napoli e di Sicilia Carlo d’Angiò. A quell’epoca egli parteggiava per gli Angioini e fidava in un silenzio – assenso da parte del sovrano. Questi in realtà ebbe un atteggiamento ambiguo e per mantenere buoni i rapporti con i Chiaramonte, essendo in guerra con Pietro III d’Aragona divenuto re di Sicilia dopo ilRebellamentu, si accontentò di una semplice promessa di restituzione del feudo Misita, che non avvenne, anche perché Carlo, morto nel 1285, non aveva più poteri sull’isola.
Il territorio di Misita era delimitato a sud dai due fiumi Naro e S. Biagio (Akragas) e all’interno penetrava fino all’altezza di Castrofilippo e Grotte. Si pensa allora che comprendesse anche la zona di Favara, che veniva a trovarsi quasi al centro di un semicerchio su cui in seguito si estendevano i possedimenti Chiaramontani: Palma di Montechiaro, Naro Racalmuto e Grotte. Quest’ultimo territorio apparteneva ai Montaperto, che hanno ricevuto perché imparentati ai Chiaramonte.
Intanto il Vescovo protestava energicamente per la spoliazione operata ai danni della Chiesa Agrigentina dai Chiaramonte e fatto ricorso alle vie legali, il 26 luglio del 1305 ebbe riconosciuto il diritto alla restituzione del “tenimento detto Misiti “. La questione sembrò risolversi nel novembre dello stesso anno allorché Rainaldo Gallese dichiarò di restituire a nome di “ Manfredi Chiaramonte il tenimento della Floresta a Bertoldo, vescovo di Girgenti”. Manfredi Chiaramonte, però, restituì solo una parte del feudo detratto, che era quella a sud, posta vicino al mare e tra i due fiumi Naro e S. Biagio; tutte le restanti terre che si addentrano verso nord “ fino al fiume Bigini (Castrofilippo) rimasero nelle sue mani. Il Vescovo continuò la sua azione legale presso la Corte Regia e nel 1333 un’altra sentenza decretò “ che la Chiesa Agrigentina dev’essere cautelata nel possesso del tenimento detto Floresta regia “. Lo stesso giorno della sentenza Pietro II re di Sicilia ordinava a Pietro da Piscina, Giustiziere della Valle di Girgenti, di costringere “ i Chiaramonte a restituire i beni usurpati e a lasciare in pace la Chiesa Agrigentina “.Sia i Chiaramonte, però, sia i Signori che a loro si succedettero a Favara, non restituirono il feudo in questione. E ripetendosi di frequente l’usurpazione di feudi ecclesiastici e demaniali da parte della nobiltà, il re spagnolo Alfonso d’Aragona nei primi decenni del secolo XV emanò un decreto di condono in cui si diceva che “ le terre godute da un barone per trent’anni le venissero attribuite per legge, anche se acquisite illegalmente”.
Nella parte del feudo Misita rimasta in mano ai Chiaramonte era incluso il territorio di Favara. Manfredi e i suoi fratelli Federico II e Giovanni il Vecchio allora si sarebbero appropriati indebitamente delle terre di Favara.
Alla questione della legittimità o meno del territorio di Favara da parte dei Chiaramonte se ne aggiunge un’altra: vi esisteva il castello al tempo dell’appropriazione indebita o è da far risalire ad un periodo anteriore?
Si è ritenuto da tempo che l’antico maniero sia da attribuire a Federico II Chiaramonte; da alcuni anni, però, si va facendo strada un’altra ipotesi, che lo riporta a Federico II imperatore. In proposito si legge sul Bilello (nella sua storia di ‘Menfi’ ) che il Secreto di Sua Maestà Federico II, con lettera da Lodi il 17 novembre 1239 dava atto al suo “ praepositum aedificorum Riccardo da Lentini” della celerità con cui andavano avanti i lavori di varie costruzioni di castelli quali quelli “ di Lentini, Caltagirone, Milazzo, Siracusa, Augusta, Catania e Favara “. Dobbiamo precisare, comunque, che il Bilello della detta citazione non riporta la fonte bibliografica. Giuseppe Spatrisano, sua volta, in base a delle analogie strutturali riscontrate tra il castello di Favara e le costruzioni residenziali sveve, ha avanzato l’ipotesi che il maniero favarese possa risalire al periodo del sovrano Federico II o a quello immediatamente successivo.
Uno storico favarese favorevole alla teoria dello Spatrisano è F. Sciara, del quale riportiamo alcuni suoi rilievi in merito.
Egli in primo luogo osserva che all’interno del palazzo feudale di Favara sono riscontrabili alcuni segni araldici propri dell’imperatore Federico II, come quelli di un’aquila reale che ghermisce una lepre; ha scoperto, ancora, una riserva di caccia estesa circa 5000 ettari e denominata “ Flomaria Borraidi” o “ Floresta regia Misiti “ (di cui si è parlato), ove , nel suo continuo viaggiare, Federico II sarebbe stato solito recarsi per le sue distrazioni venatorie.
Questi ed altri particolari per lo Sciara sarebbero indicatori della presenza dell’imperatore Federico II in territorio di Favara, per cui non risulterebbe priva di connessioni l’ipotesi che l’origine del castello favarese sia a lui riconducibile.
Indubbiamente il maniero contiene elementi architettonici tipici dell’arte chiaramontana, ma si può desumere che essi siano stati aggiunti successivamente, in una fase di modifica o di restauro.
Alle origini il casale di Favara contava pochissimi abitanti. Si ha notizia che nel censimento del 1375 ( avutosi a seguito del subsidium che ogni famiglia siciliana dovette pagare alla Santa Sede per avere tolta la scomunica subita con la rivoluzione del Vespro), era popolata da appena 51 fuochi. E se supponiamo che ogni famiglia fosse composta in media da cinque persone, risulta che, approssimativamente, Favara contasse 255 abitanti. Per un raffronto, riportiamo che a quell’epoca Bivona contava 472 fuochi e Racalmuto 136. Si può allora evincere che sotto i Chiaramonte il paese fosse quasi spopolato e tale volto viene a rafforzare l’ipotesi che inizialmente il sito di Favara fosse stato trasformato in un covo presso cui attirare, dare asilo e proteggere masnadieri, banditi, delinquenti e ricercati per avere a propria disposizione uomini d’arme con i quali esercitare la propria autorità.
Molte imprese delittuose dai ribaldi di Favara venivano perpetrate ai danni degli abitanti di Girgenti, particolarmente quando la città nella seconda metà del secolo XIV cadde in mano ai Chiaramonte e divenne feudale fino al 1392.
Sotto re Martino I, a seguito della condanna a morte di Andrea Chiaramonte, la città chiese ed ottenne, dietro pagamento di onze sonanti, di ritornare ad essere città demaniale.
Re Martino, spogliati i Chiaramonte dei loro beni, deplorò “ l’associazione a delinquere” che si era formata a Favara e ordinò che “ venisse abolita, tolta e annullata … una certa prava consuetudine una volta comune per quelli di Chiaramonte ottenuta nel casale di Favara “, per la quale “ chiunque fosse debitore ad alcuno o avesse commesso qualche delitto, trasferendosi in detto casale di Favara, il detto debitore o delinquente era liberato dal debito o dal delitto “.
Demograficamente il casale di Favara comincerà ad estendersi nel secolo XVI. Con il censimento del 1548 esso contava appena 90 fuochi e 500 abitanti. Dopo tale data, però, per svariate ragioni tra cui quella di essere divenuto Ente Morale (Comune ), iniziò a registrare un aumento progressivo di abitanti, che lo portò a divenire uno dei maggiori centri urbani della provincia di Agrigento.
I dati demografici tra il secolo XIV e il secolo XVI sono i seguenti:
1375 fuochi 51;
1548 fuochi 90; abitanti 500;
1572 abitanti 1726;
1583 abitanti 2095.
Quello chiaramontano costituisce, forse, uno dei periodi più scialbi della storia del piccolo casale di Favara che, nonostante rifondato con la costruzione di un castello nel suo territorio (la sua prima origine suole farsi risalire agli Arabi, come testimonia l’etimologia del toponimo), registra un lungo ristagno sociale che lo taglia fuori dagli avvenimenti storici del tempo. Bisogna arrivare al 1548 per registrare l’inizio di un risveglio demografico che, continuerà nei secoli, si accentuerà nel secolo XIX con lo sfruttamento delle miniere di zolfo e farà di Favara uno dei più popolosi centri urbani della provincia di Agrigento.